Nel 1968 avevo dodici anni.

Un periodo difficile per il fermento sociale e la situazione politica internazionale.

Era l’anno dell’offensiva del Têt in Vietnam, degli assassinii di Martin Luther King a Memphis e di Robert Kennedy a Los Angeles.

Era l’anno del terremoto nel Belice in Sicilia.

Era l’anno dei titoli mondiali di Nino Benvenuti al Madison Square Garden, Sandro Mazzinghi allo stadio di San Siro e Vittorio Adorni sul circuito del Santerno a Imola.

Era l’anno della vittoria della nazionale italiana di calcio nel Campionato Europeo a Roma.

Era l’anno delle Olimpiadi di Città del Messico e dei pugni neri alzati di Tommie Smith e John Carlos.

Era l’anno della contestazione studentesca con il Maggio francese a Parigi, prima, e a macchia d’olio, poi, in tutta Europa.

Nel 1968 io non avevo la minima idea del significato di tutti questi avvenimenti, perché ero un ragazzino di dodici anni di quell’epoca.

Avevo solo un interesse, nient’altro.

 

L’anno prima, nel 1967, erano successe due cose.

La prima in primavera, non ricordo esattamente quando: come parte del regalo di compleanno, mi portarono al cinema per vedere Grand Prix di John Frankenheimer, appena uscito in Italia; rimasi per tutto il tempo in trance, perso nelle immagini e nel sonoro del film. All’uscita, naturalmente, avevo deciso che sarei diventato un pilota.

Della seconda invece ricordo la data, il 10 Settembre 1967: ero a Monza per assistere al Gran Premio di Formula Uno, nella palazzina in fondo alla corsia box. Accompagnavo mio padre che era stato invitato per l’evento. Allora si poteva circolare liberamente all’interno del paddock, mi ricordo dei team sistemati nei vecchi box.

Ho viva l’immagine dei meccanici che rifornivano le vetture versando la benzina nel serbatoio da una tanica, un panno sull’imbuto infilato nel bocchettone. Il colore della benzina e, soprattutto, il suo odore.

E poi i piloti, che non conoscevo. Non sapevo chi fossero Clark, Brabham, McLaren, Amon, Gurney, Hulme, Stewart. O ancora Hill, Surtees, Scarfiotti, Rindt, Spence, Siffert. E neppure Bonnier, Ickx, Irwin, Baghetti, Ligier.

Tutti questi nomi insieme, sulla griglia di partenza. E poi la gara.

Il rumore assordante alla partenza, la velocità delle vetture in rettilineo. L’agitazione ai box quando una macchina si fermava per un problema. Non era raro che meno della metà dei partenti finisse la gara.

Poi mi ricordo la vettura numero 20 che rientra ai box per una foratura.

Chiedo chi sia e mi dicono «Jim Clark, peccato perché era primo.»

Perde un giro, un’eternità, tra giro di rientro e cambio gomme. Dopo un po’, però, riparte.

Sento tremare il pavimento quando passa sotto di noi, in piena accelerazione.

Comincio a seguire questo pilota e dai commenti capisco che sta recuperando. Giro dopo giro, sorpasso dopo sorpasso, si riporta in testa.

All’ultimo giro iniziano i problemi di pescaggio benzina e così finisce terzo. Allora non c’era il podio, il trofeo andava solo al vincitore. Per il secondo e il terzo una bella pacca sulla spalla e via.

Ma vedo che lo portano in trionfo lo stesso, e penso che deve essere uno davvero bravo.

Ritornato a casa, disegno un circuito su un rotolo di panno chiaro, fissato con puntine da disegno sul piano del tecnigrafo di casa, per far correre con un amico la mia collezione di mini F1. Mi ricordo che in realtà i circuiti erano due diversi, uno fronte e uno sul retro, ma tant’è…

La modalità di gioco era una specie di Subbuteo ante litteram declinato all’automobilismo: a turno, con la punta delle dita, si davano dei colpetti alle piccole F1 della propria squadra sia per mandarle in avanti che per farle ruotare.

Regole rigidissime stabilivano traiettorie, tagli di percorso, uscite di piste, incidenti e, ovviamente, generavano confronti accesissimi.

La Scalextric era fuori budget e dei simulatori di guida non c’era neanche l’idea.

Allora, a dodici anni, ci divertivamo così.

 

Il 7 Aprile 1968 era una domenica come tante altre. Nel pomeriggio eravamo presi da una gara di mini F1 quando qualcuno, non ricordo chi, disse «Alla radio hanno detto che Jim Clark è morto.»

“Ma come, Jim Clark…” mi chiedevo, guardando la sua Lotus sul panno davanti a me. Ricordo ancora quanto mi colpì quella notizia, anche se non lo conoscevo più di tanto. Lo avevo visto correre e sapevo solo che era davvero bravo.

Era successo in Germania, in un circuito dal nome strano che non avevo mai sentito, in una gara di Formula 2 alla quale non avrebbe nemmeno dovuto partecipare. In una curva che non è una curva.

Così ho iniziato a cercare notizie su di lui e ho trovato un libro di Bill Gavin, “La storia di Jim Clark”, il primo comprato di mia iniziativa. Mi ha accompagnato nel corso di tutta la mia carriera e ancora oggi ha il suo posto d’onore, nella libreria del mio ufficio.

Leggendolo ho imparato che questo pilota, davvero bravo, ha vinto molte gare con vetture turismo e sport, 25 Gran Premi di F1, i due Campionati del Mondo di F1 e la 500 Miglia di Indianapolis.

Che un vero campione è tale su qualunque tipo di automobile lo si metta, che sia turismo, sport, F1, F2 o Indy o altro.

Che i suoi titoli mondiali sarebbero potuti essere molti di più se la fragilità della macchina non lo avesse fermato troppe volte nel corso degli anni, definitivamente quella domenica di Aprile.

Che se quel giorno a Monza non avesse forato, perdendo un giro, avrebbe finito la benzina nel corso dell’ultimo giro e non avrebbe tagliato il traguardo. E che quindi il team aveva sottostimato i consumi.

Che Jim Clark ha potuto esprimere il suo talento immenso solo incontrando il genio di Colin Chapman, che ha saputo ascoltare un ragazzo scozzese introverso e di poche parole.

E questa è la cosa più importante che ho imparato.

Non so se Jim Clark è stato il pilota più grande di tutti i tempi ma certamente lo è stato nella sua epoca.

Lo ricordo così, come il 7 Aprile di ogni anno.

 

Marco Calovolo

P.S.:

Nel 1968 non avevo idea di che cosa fosse allora il mondo, tantomeno il mondo delle corse.

L’informazione erano i quotidiani, la radio e i due canali RAI, rigorosamente in bianco e nero.

Il web sarebbe arrivato solo venticinque anni dopo.

Ma molto presto venni a scoprire l’esistenza di due riviste specializzate, Auto Italiana e Autosprint.

E fu l’inizio.

Jim Clark (Zandvoort 1965)